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Luca Reale, PhD in “Composizione Architettonica – Teorie dell’Architettura”, è ricercatore presso la facoltà di Architettura dell’Università “Sapienza” di Roma, dove insegna Progettazione Architettonica e Urbana (http://lucareale.weebly.com/). Membro del collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in “Architettura e Costruzione – Spazio e Società” e della redazione di “Hortus”, è responsabile scientifico degli Erasmus Intensive Program SMANFUL (Suburban Mobility and New Form of Urban Life) e Valuable RESIDE (Valuable Residential Exhausted Settlements: the Identity of Deprived Environments), e dell’Accordo Internazionale con la South East University di Nanjing (Cina). Dal 1999 ha svolto la professione di architetto, ottenendo riconoscimenti e premi in concorsi internazionali. Ha scritto saggi su progetto, architettura e città per riviste di settore, per Gangemi ha pubblicato “Densità Città Residenza” (2008) e curato “La città compatta” (2012), per l’Editore SE “Residenze Collettive” (in pubblicazione).

  • Quali sono stati i libri, i personaggi o le esperienze che hanno influenzato il suo interesse verso l’ambito urbano e i suoi scenari di mutamento?

Difficile citarli tutti, per la mia formazione mi limiterò a citarne tre: Kevin Lynch e la sua continua ricerca su come le persone percepiscono lo spazio, l’approccio interscalare e radicale di OMA, Alison e Peter Smithson e più in generale l’esperienza di revisione critica del Moderno compiuta dal Team X e il tentativo di sostituire alle categorie funzionali della carta d’Atene, separate nel tempo e nello spazio, categorie spaziali, sovrapposte e in relazione tra loro. È stato per me fondamentale l’aver potuto collegare queste figure alla mia formazione tutta interna alla scuola romana, basata sulla centralità del progetto e sulla convinzione – che da architetto poi ho sempre mantenuto – che la continuità tra questioni urbane e progetto di architettura sia un fatto indiscutibile. Nel presente influenzano molto il mio interesse per le città in trasformazione le continue esperienze fuori dall’Italia (Erasmus IP in Europa, scambi internazionali con Cina e Corea del Sud), il confronto su questi temi con i miei colleghi e collaboratori di studio (osa architettura e paesaggio). E poi, avendo la fortuna di svolgere forse l’unico mestiere veramente non-specialistico rimasto, suggestionano il mio lavoro l’arte, la letteratura, la saggistica non di settore, il cinema, ma anche il semplice abitare e muovermi ogni giorno in una città complessa come Roma.

  • In quale momento del suo percorso formativo o in quale particolare occasione ha avuto a che fare con tematiche relative ai margini urbani?

Nel mio primo viaggio in Cina, a Pechino nel 2006, ricordo che dovevamo progettare, con gli studenti e i docenti invitati per un workshop internazionale, un parco urbano in grado di riconnettere la residenza imperiale del palazzo d’Estate con un sistema territoriale che terminava, nella parte nord-ovest della città, nel parco delle Colline Fragranti. Ben presto ci accorgemmo che il vero tema del lavoro sarebbe stato capire come progettare il margine urbano della città verso questo parco, come “sospendere” l’espansione urbana che pressava questo grande vuoto. Nel mio testo sulla densità (Densità città residenza. Tecniche di densificazione e strategie anti-sprawl) ho individuato una delle strategie antisprawl proprio nella realizzazione di grandi edifici-bordo in grado di contenere lo sviluppo urbano definendo al contempo grandi vuoti; interventi fuori scala rispetto al tessuto ma confrontabili con la forma di un intero settore urbano e a volte direttamente raffrontabili col paesaggio, più che con la città. Sono casi in cui architettura e disegno urbano tendono a sovrapporsi, se non proprio a coincidere. Sono interessato a tutte le operazioni architettoniche che, in maniera estrema, con le loro dimensioni e la loro complessità interna “producono” direttamente una porzione di città.

  • Tre parole per descrivere i margini urbani, in rapporto ai caratteri della città contemporanea ed agli spazi urbani che lei vive e frequenta.

Fragili, indeterminati, netti

  • Spazi periurbani /luoghi plurali. In cosa sta la loro complessità, le loro potenzialità e problematiche? Quali attenzioni è necessario dedicare al progetto di questi spazi?

Ho sempre preferito l’idea di soglia al concetto di margine o limite. Gli stessi edifici-bordo non sono mai equiparabili a mura, ma a spazi intermedi e di passaggio, in grado però di definire con chiarezza un dentro da un fuori. La soglia è uno spazio e come tale “deve essere distinta molto nettamente dal confine. La soglia è una zona”, scrive Walter Benjamin in “Les passages de Paris”. In questo senso potremmo oggi leggere la natura ibrida e indeterminata degli spazi periurbani.
Il margine urbano, che nella città tradizionale costituiva una frontiera, è un concetto che con la crescita delle periferie diventa del tutto relativo. Per alcuni decenni l’idea era: ciò che oggi è periferia, domani sarà città consolidata. Oggi le cose sono un po’ cambiate, le nostre città non crescono più, o comunque non con la stessa pressione, i margini sono anche “interni”. C’è poi una marginalità intesa come trascurabilità o emarginazione. La periferia, che fino agli anni ’70 aveva un carattere progressivo, ad un certo punto diventa sinonimo di degrado. È qui che gli architetti abbandonano le riflessioni sui temi urbani (e sociali), rifugiandosi nell’artigianalità del mestiere o concentrandosi su aspetti secondari o specialistici della professione. E forse è anche a causa di questa accezione negativa del margine che il progetto delle aree periurbane è stato spesso relegato su un piano inferiore, nelle decisioni urbanistiche o strategiche, o nelle ambizioni professionali dei progettisti. Detto ciò è difficile per me dire se ci siano particolari attenzioni o prescrizioni specifiche da seguire.

  • Che ruolo ha avuto la pianificazione, ad oggi, nello sviluppo dei margini urbani, e quali sono, secondo la sua opinione, le prospettive future?

Un ruolo abbastanza discutibile, se non deleterio. La cosiddetta territorializzazione degli insediamenti urbani, la metropolizzazione dello spazio che voi al Nord Italia avete così bene sotto gli occhi, con la sua innegabile efficacia in termini di ricchezza e produttività, ha prodotto una non-città assolutamente povera (in termini spaziali oltre che sociali) e ripetitiva. I margini in nessun caso sono stati difesi, rafforzati o semplicemente evidenziati, ma si sono annacquati, se va bene, quando non sono del tutto scomparsi. A questo fenomeno, spontaneo e globale, l’urbanistica non ha reagito con le giuste contromisure (normative antisprawl, ad esempio). Dove si è intervenuti, dagli anni ’90, oggi si nota una differenza: se attraverso la Francia o la Germania in automobile o in treno riesco ancora a distinguere un centro urbano dall’altro. Se vado da Milano a Venezia, no.

  • Secondo lei è possibile orientarsi verso una progettazione partecipata degli spazi di margine e ha quindi senso coinvolgere e sensibilizzare i cittadini verso questi temi?

Mi pare che in questa domanda si avverta ancora un’accezione negativa del senso del margine. Marginale come problematico, periferico, nel senso in cui si diceva prima. Credo che il coinvolgimento degli abitanti nelle trasformazioni urbane sia non solo auspicabile ma sempre più spesso necessario. E non solo nel progetto degli spazi di margine. Questo tuttavia non può in alcun modo annullare o sostituire quella componente arbitraria (a volte perfino irrazionale) che il progetto innesca. Il rischio è sempre cercare il compromesso al ribasso, il consenso a tutti i costi, o peggio, coprire un intervento di scarsa qualità con la partecipazione. È l’operazione che troppo spesso in questi anni è stata fatta strumentalizzando la sostenibilità (oggi la smartness). Partecipazione dovrebbe invece esprimere una condivisione delle scelte, ma nel rispetto dei ruoli, e senza paternalismi. De Carlo considerava la partecipazione uno strumento per condurre i futuri abitanti alla consapevolezza della potenziale qualità di uno spazio architettonico e urbano, qualità che, se lasciati a se stessi, non sarebbero stati in grado di immaginare.

© 2013_ DdB

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